giovedì 22 novembre 2012

L'amatriciana ...














ROMA - Tutto comincia con la «gricia»: spaghetti, guanciale e pecorino, una ricetta solida di pastori tra Abruzzo e campagne romane. L’Amatriciana viene molto dopo e si diffonde con l’irruzione del pomodoro nella nostra tradizione culinaria.

Considerando che la prima ricetta «in rosso», un «sugo di pomidoro», la troviamo nell’Apicio Moderno, un’opera del 1790 del romano Francesco Leonardi, cuoco anche di Caterina II di Russia, appare evidente che il piatto comincia a diffondersi nell’800.
Amatriciana o «matriciana»? Amatrice, prima che nel 1935 con la creazione della provincia di Rieti diventasse un comune del Lazio, era un borgo abruzzese. È quindi da quel territorio che si irradia la ricetta, lungo le vie degli scambi tra pastori e delle immigrazioni verso Roma, la quale trasformerà l’amatriciana, storpiandone il nome in «matriciana», in uno dei formati simbolo della sua cucina tipica, immettendo anche delle varianti (la principale, la cipolla soffritta).

E se ancora ci fossero dubbi, nella querelle Roma-Amatrice, basti ricordare che l’Illustrazione Italiana, il prestigioso settimanale fondato da Emilio Treves nel 1873, in un numero dell’aprile 1937, si guardava bene dall’attribuire l’amatriciana ai saperi e sapori della capitale. Anzi, in una suggestiva intervista a Nicandro, trattore verace di Amatrice, ne veniva tratteggiata una ricetta in linea con quella classica, ma con lo strutto al posto dell’olio per rosolare il guanciale.

Ingredienti(per 4 persone)
320 – 400 gr di spaghetti
100 gr di guanciale
100 gr di pecorino
400 gr di pomodori
pelati
1 cucchiaio di olio
extravergine di oliva
½ bicchiere di vino
bianco secco
1 peperoncino

La preparazioneLa ricetta si muove lungo due varianti: «cipolla sì-cipolla no». Secondo l’ortodossia amatriciana, partendo se possibile dall’indispensabile padella di ferro, si fa soffriggere il guanciale tagliato a dadini non troppo piccoli in un filo d’olio con un peperoncino, si sfuma con il vino e si mette da parte. Poi si mettono in cottura i pomodori privati dei semi e tagliati a filetti. Quando la salsa comincia a tirare si aggiunge il guanciale. Dopo aver lessato gli spaghetti al dente si posano nel piatto di servizio con una parte del pecorino. Passata una manciata di secondi si copre con la salsa prima di aggiungere l’altro pecorino. Le varianti? Un soffritto più o meno leggero di cipolla, molto diffuso nella matriciana romana. E poi bucatini, mezze maniche, rigatoni al posto dei classici spaghetti. Sul pomodoro molti propendono per un mix di «fresco» e di pelati. Guanciale ben stagionato e pecorino di Amatrice, meno sapido di quello romano.

I viniCi vuole un buon rosso: dal territorio Nero buono di Cori oppure un raffinato Rossese di Dolceacqua (Luvaira). O per farla difficile Vinudilice (I Vigneri), un rosè dell’Etna.

A roma se magna così! Antiche tradizioni e sapori locali.

Cantina de Noantri -













ROMA - Sulla storia del carciofo in cucina fioriscono molte leggende, già a cominciare da una favola pseudo-mitologica che vuole che la ninfa Cynara, bellissima e dai capelli color biondo cenere, amata follemente da Giove,osò resistere al padre degli Dei e fu per questo trasformata in una pianta spinosa. Sicuramente il carciofo era conosciuto nella cucina del mondo antico e, nella sua forma coltivata, dall’Egitto arrivò in Sicilia. Nel XVI secolo era già diffuso in Toscana. Non a caso Maria de’ Medici andata sposa nel 1547 a Enrico II di Francia ne introdusse l’uso Oltralpe. Pare che la regina fosse molto ghiotta dei cuori di carciofo al punto da influenzare molte delle ricette dei principali cuochi del suo tempo. Tuttavia questa pianta che suggestionò anche la pittura di Arcimboldo non ha ascendenze aristocratiche a Roma. I classici carciofi alla romana nella forma in cui oggi li conosciamo sono piatto ottocentesco, con gli ingredienti dell’orto, la mentuccia, l’aglio, il prezzemolo. Quanto ai carciofi alla giudìa si può parlare di un’origine accertata più antica, visto che nella loro forma fritta vengono già citati in ricettari e memorie del XVI secolo. A questo proposito l’espressione «alla giudìa» non deve considerarsi riferita a prescrizioni alimentari kosher, bensì a uno stile di cucina tipico (la frittura è molto presente nella tradizione ebraica). L’elenco non sarebbe tuttavia completo se non si considerasse anche una variante castellana del carciofo, cotto con aglio, mentuccia e un poco di pecorino nella bracia ricavata dalla potatura dei sarmenti della vite.

Ingredienti
(per 4 persone)
4 carciofi
Aglio (2 spicchi)
Mentuccia
Prezzemolo
Sale e pangrattato

Preparazione
Procuratevi dei classici carciofi mammole della campagna romana (carnosi e senza spine). Procedete quindi a pulirili accuratamente eliminando le foglie esterne più dure e le parti pelose all’interno. Scorciate il gambo fino a una lunghezza di quattro centimetri e lasciate i carciofi a testa in giù in una bacinella con acqua acidulata con limone (per evitare che anneriscano). A parte preparate un trito di aglio, mentuccia, prezzemolo, con un filo di olio, sale e pangrattato. Salate e fate andare in tegame per un paio di minuti, quindi coprite d’acqua fino alla testa del carciofo e fate cuocere coperto per una mezz’ora.

I vini
I carciofi alla romana hanno una nota amaro-metallica che non si presta sempre all’abbinamento col vino. In ogni caso privilegiate rossi senza eccessi di tannino. Bene i Primitivi morbidi di ultima generazione e i Cesanese non troppo aggressivi. Sui carciofi alla giudìa le bollicine funzionano sempre.